La stanza dei bottoni

di Andrea Saviano

Parte dell'antologia a favore della LEGA DEL FILO D'ORO: Tutti i colori dei bambini

Tutti i colori dei bambini, Andrea Saviano


Capitava spesso che, insieme alla madre, andasse a trovare la nonna. Altrettanto spesso, ai noiosi discorsi delle due donne, il bimbo preferiva i numerosi libri collezionati dal nonno. Erano persino più interessanti delle tediose lezioni di scuola e dei compiti per casa.

In quella stanza, caratterizzata da un basso tavolino circondato da numerose poltrone e da un'enorme libreria, i vari volumi facevano bella mostra di sé. Alcune opere erano in brossura, altre finemente rilegate in pelle a seconda che si trattasse di edizioni economiche o di lusso.

Persino l'odore di quella stanza aveva un nonsocché d'affascinante e, al tempo stesso, misterioso. Lì, dentro quelle pareti, una misteriosa magia si compiva e rendeva le ore, trascorse a leggere, brevi come minuti. Spesso sua madre faceva capolino dalla porta. Lo veniva a controllare, timorosa del fatto che potesse danneggiare qualche prezioso libro del padre. Così compariva silenziosa per rimanere immobile a controllare cosa stesse combinando il figlio.

Solitamente lo trovava inginocchiato sull'antico tappeto persiano, i gomiti puntati sul basso tavolino da thè. Il bambino pareva adorare e rispettare quelle pagine. Le sfogliava attento a non sgualcirle, premuroso che gli angoli non s'arricciassero.

Solo un impercettibile movimento delle labbra permetteva di comprendere che fosse intento a leggere il testo e non solo a guardare le figure.

I suoi preferiti erano i libri di storia, dove poteva apprendere le gesta ora di questo ora di quel condottiero.

Quei volumi erano, in un certo senso, prodigiosi. Bastava sfogliarli per riempire quella deserta stanza di migliaia di persone e animali. Era così possibile sentire il barrito degli elefanti d'Annibale mentre varcavano le Alpi o le salve di cannone della flotta di Nelson durante la battaglia di Trafalgar. Interi palazzi, enormi città e sterminati imperi, grandi quanto un continente, riuscivano a stare dentro a meno di venti metri quadri.

Quando la voce della mamma annunciava: « Amore, rimetti a posto tutto. Torniamo a casa. » era sempre un momento triste. Dopotutto, non è mai bello separarsi dagli amici proprio nel momento più bello del gioco. Tornato a casa, per prima cosa, correva nel laboratorio di sartoria della madre per frugare ansioso nei cassetti alla ricerca delle scatole dei bottoni.

Bottoni di tutte le dimensioni e dei più diversi colori. Ogni scatola ne riportava un esemplare cucito sul coperchio, così da poter riconoscere il contenuto senza doverle aprire. Il formato prediletto era quello che la madre utilizzava per i completi maschili. Piccoli, semplici, caratterizzati da quattro fori e privi di qualsiasi decorazione.

Con attenzione certosina selezionava le tinte che riteneva indispensabili, perché ogni colore aveva il suo significato. Il blu era la fanteria, il beige la cavalleria e così via.

Con le sue piccole manine impilava le grosse scatole una sopra l'altra, fino a farne una pila che lo superava abbondantemente in altezza. Poi, un po' barcollando e un po' camminando, si dirigeva con cautela verso la sua cameretta. Barcollava, perché era difficile portare tutte quelle scatole in una sola volta. Procedeva con cautela, perché sua madre non voleva nella maniera più assoluta che lui prendesse qualcosa dal laboratorio di sartoria, soprattutto le forbici.

Nel più assoluto silenzio, si dirigeva verso la sua cameretta e, prima d'aprirne la porta, lanciava un fugace sguardo al boiler che, dal fondo del bagno, lo guardava torvo con quei due occhietti vispi fatti a fiammella.

« Lo so che non dovrei prendere i bottoni della mamma... » gli diceva.

A quel punto lo scaldabagno trasformava l'oscura caverna della bocca in un sorriso in cui tanti dentini fiammeggianti comparivano dal nulla.

Una volta posate le scatole sul pavimento, chiudeva delicatamente la porta, in modo che la mamma non sentisse, perché lei non gradiva che il figlio non solo rovistasse tra le cose del laboratorio di sartoria ma che si mettesse a giocare prima d'aver svolto i compiti che il maestro gli aveva assegnato per casa.

Nel volgere di pochi minuti quella stanza solitaria si riempiva così delle urla di due eserciti l'un contro l'altro armati. A destra si sarebbe sentito lo squillo di una tromba, a sinistra un altro squillo le avrebbe risposto. Poi ci sarebbe stato lo scalpitare di zoccoli e il nitrire dei cavalli sospinti in una carica che avrebbero segnato l'inizio delle ostilità. Quindi, tintinnare di spade, grida di dolore e sangue, tanto sangue ovunque... in una reale battaglia ma, nella fantasia di un bimbo, nulla di ciò.

Per quel bambino c'erano solo grandi condottieri e valorosi soldati che si confrontavano lealmente su un campo di battaglia. Nessuno avrebbe mai infierito su un nemico sconfitto e qualsiasi ferita sarebbe stata guarita con un bacino, uno di quelli che la mamma gli dava per far passare qualsiasi dolore.

Un giorno, però, che la mamma era distratta, delle immagini alla televisione lo colpirono. Era un luogo lontano, da qualche parte nel mondo. Degli uomini in divisa impugnavano delle armi, poi uno di loro emetteva delle grida di dolore, mentre dalla sua schiena usciva sangue, tanto sangue.

All'improvviso un concetto semplice ed elementare, come lo può avere un bambino: non ci sono grandi guerrieri, perché la guerra non può rende nessuno grande.

Una corsa verso la propria stanza, per rimettere tutti i bottoni nelle loro scatole e una corsa verso il laboratorio della mamma, per riporre tutte le scatole nei loro cassetti. Quindi, sempre di corsa, il ritorno verso la propria stanza ad aprire i cassetti della scrivania in cerca di fogli, matite e colori. Altre voci a riempire la camera, non dei grandi condottieri ma quelle dei grandi maestri, perché l'arte rende grandi gli uomini, riuscendo a regalare la bellezza ad un pianeta afflitto troppo spesso dalla mostruosità della guerra.

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